I rischi per la democrazia crescono, e il modo stesso con cui in Italia si svolge la campagna elettorale – percorsa da ripetuti episodi di violenza e di intolleranza, e da spinte dichiaratamente fascistiche e autoritarie – ne è la conferma evidente e preoccupante. La riduzione dei numero dei parlamentari, sostenuta dai 5 Stelle e approvata di recente dalla Camera dei deputati, si situa in questo contesto. Non si può dire però che rappresenti il maggior rischio per la nostra democrazia, sebbene tenda a depotenziare ulteriormente il ruolo del Parlamento e della rappresentanza.
In realtà ci troviamo di fronte a un complesso di fenomeni negativi che stanno disgregando la società fino al punto di mettere in discussione l’unità della nazione. Come giustamente è stato osservato, la cosiddetta autonomia differenziata delle Regioni, su cui punta la Lega, non è altro che un’espressione istituzionale dell’egoismo secessionista dei ricchi. Qual è allora la vera materia del contendere, in questa nuova fase che si è aperta con crescenti spinte di destra in tutta Europa, e con l’affermazione in Italia del governo pentaleghista?
Nel Paese è sì sotto attacco la democrazia. Ma quale democrazia? Non la democrazia in astratto, la tanto magnificata democrazia liberale, peraltro in crisi in tutto il mondo, per la quale si straccia le vesti il vecchio Scalfari, e alla quale sembra restare incollato anche il più giovane Zingaretti. Ma la democrazia nostra, la democrazia costituzionale. Che fonda sul lavoro la Repubblica «una e indivisibile», e va ben oltre i principi del diritto liberale per progettare una più alta civiltà.
Non più solo l’uguaglianza formale davanti la legge - pure essenziale - che spoglia i cittadini della loro qualità sociale, ma l’uguaglianza sostanziale. Che ridefinisce il concetto stesso di libertà in relazione alle condizioni sociali e culturali delle donne e degli uomini, i quali sono chiamati a cooperare e solidarizzare in modo da elevare la qualità della vita di tutti e di ciascuno. Quindi, non solo la democrazia rappresentativa (insieme a diverse forme di democrazia diretta), in cui si concretizzano le regole del funzionamento delle istituzioni a cominciare dal Parlamento. Ma la democrazia sociale e la democrazia economica, che attengono alla vita materiale e spirituale delle persone, e perciò riguardano i diritti sociali e la conformazione della proprietà, rispetto ai quali si definisce l’assetto delle medesime istituzioni. Questo è il disegno della Costituzione nata dalla guerra di liberazione e dall’abbattimento del fascismo.
Guardiamo bene in faccia la realtà. Senza falsificazioni e fake news, senza camuffamenti e anche senza retorica. La Costituzione repubblicana non è stata formalmente cancellata. È ancora in piedi nonostante i vari tentativi di metterla in ginocchio e le gravi lesioni inferte alla rappresentanza. Ma la democrazia sociale e la democrazia economica, fattori costitutivi della democrazia costituzionale che si invera nella fitta trama dei diritti sociali della persona e nella funzione sociale della proprietà, sono state in larga misura smantellate in questa fase di declino sotto la bandiera del “libero mercato” e delle privatizzazioni generalizzate.
Nel trentennio trascorso nessuno ha mosso un dito tra i partiti della sinistra (o presunti tali) per dare attuazione ai principi sociali ed economici, la parte più innovativa della Carta che (ancora) regge il patto tra gli italiani. Anzi, la cosiddetta sinistra riformista imperniata sul Pds-Pd e non solo - che sarebbe più appropriato definire sinistra del capitale - è stata un agente attivo dello smantellamento dei diritti e un promotore non secondario dello sfruttamento sfrontato del lavoro. Ancora oggi è incomprensibile che non si assuma con chiarezza e senza esitazioni la Costituzione come terreno di lotta e di programma per un cambiamento reale. Volto a risollevare l’Italia e gli italiani dai tormenti della disoccupazione e della precarietà, dallo sfascio della società e del territorio, dallo sfacelo dei diritti, dalla paura di un futuro senza prospettive. Un errore politico, o una scelta consapevole?
È arrivato comunque il tempo di prendere atto che non basta restare sul terreno istituzionale, pur con encomiabili e necessarie iniziative, per difendere la Costituzione. Soprattutto per attuarla nei suoi possibili sviluppi e uscire dalla crisi costruendo una reale alternativa. Occorre scendere nel profondo della società diversificata e devastata, lontana dalle istituzioni, e lottare perché lì, nelle diverse articolazioni del corpo sociale, si rianimi una forte presenza popolare e di massa in grado di far vivere nel nostro tempo i principi fondamentali di libertà e uguaglianza. Contrastando i tormenti della quotidianità, e riaccendendo fiducia e sicurezza nell’avvenire. Questa è la sfida.
A meno che non si considerino inutili rifiuti del passato, da far marcire nella discarica della storia - faccio solo qualche esempio - il diritto al lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni» e quindi la piena occupazione (articoli 4 e 35), «lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» nonché la tutela «del paesaggio e del patrimonio storico e artistico» (art. 9), il ripudio della guerra «come strumento di offesa di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11).
E ancora: «il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro» e comunque sufficiente ad assicurare «un’esistenza libera e dignitosa» (art. 36); la parità di retribuzione e di diritti, «a parità di lavoro», tra uomini e donne (art.37); la tutela della salute «come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività» (art. 32); l’istruzione di base «obbligatoria e gratuita» per tutti, mentre «i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti dello studio» (art.34).
Non solo i diritti civili, ma una fitta trama di principi e di diritti nuovi cui nella Costituzione corrisponde l’indicazione dei doveri e delle condizioni economiche, sociali e politiche indispensabili alla realizzazione di una civiltà più avanzata che non sia fondata sul dominio del capitale, ossia sulla tanto sbandierata libertà di mercato. Primo fra tutti il dovere di concorrere alle spese pubbliche secondo la capacità contributiva. Ragion per cui «il sistema tributario è conformato a criteri di progressività» (art. 53).
Ma questo non basta. Per contrastare efficacemente disuguaglianze e povertà è necessario che l’iniziativa economica, ancorché libera, non si svolga – teniamolo bene a mente - «in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana» (art.41). La proprietà, a sua volta, non può essere monopolio esclusivo dei privati. Al contrario, «è pubblica o privata» e, «resa accessibile a tutti», deve svolgere comunque «una funzione sociale» (art. 42). Inoltre, determinate categorie di imprese di particolare interesse generale, oltre che allo Stato e a enti pubblici, possono appartenere anche «a comunità di lavoratori o di utenti» (art.43). Il caso dell’Ilva di Taranto, in proposito, conferma pienamente la modernità di tale indirizzo.
Nell’insieme il progetto costituzionale configura un’economia mista, che non abolisce la proprietà privata sugli strumenti di produzione e comunicazione e sui mezzi finanziari. Ma configura la proprietà in modo tale da renderne possibile il limite e il controllo, ponendo l’economia la servizio degli esseri umani, e non viceversa. Come confermano gli articoli relativi ai limiti della proprietà terriera (art. 44), alla funzione sociale della cooperazione (45), al diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle imprese (46), alla tutela del risparmio e al controllo del credito (47).
Non è difficile osservare che se i principi e i diritti costituzionali fossero stati attuati, o comunque se si fosse coerentemente lottato per attuarli, l’Italia non si troverebbe in queste condizioni: nell’oscurità di una stretta tra due forze politiche che ci spingono entrambe verso il passato, mentre il Paese va alla deriva. L’una, la Lega, perché sta sdoganando razzismi e violenze tipiche del fascismo in un torbido intreccio con ambienti malavitosi. L’altra, i 5 Stelle, perché galleggiando in un’area di pensiero dove la cultura della Costituzione non ha cittadinanza, è esposta a tutti venti e a tutte le avventure.
Diciamolo con chiarezza. Questo è il risultato di un fallimento clamoroso delle classi dirigenti. E però anche dell’insufficienza delle forze di opposizione, che non sono state in grado di offrire un’alternativa credibile. Perciò è necessaria una svolta radicale rispetto al passato. E questa svolta si può compiere impugnando il progetto di nuova società tratteggiato dalla Costituzione, raccogliendo e unendo le forze per la sua attuazione.
L’operazione non è semplice perché occorre in pari tempo costruire la condizione primaria che è stata distrutta, e che la Costituzione medesima indica come imprescindibile per la sua esistenza in vita: la presenza di una classe lavoratrice politicamente organizzata nella società e rappresentata nelle istituzioni, capace di incidere nei rapporti di forza a tutti i livelli. In altre parole, nel tempo della rivoluzione digitale e del capitalismo globale finanziarizzato, si tratta di costruire una formazione politica di tutti coloro che dal capitale sono sfruttati, delle lavoratrici e dei lavoratori, uomini e donne, giovani e anziani, autoctoni e migranti, oggi divisi e in lotta tra loro.
Un compito di enorme portata, al quale non si può rinunciare. Da dove cominciare? Non c’è un prima e un dopo. Prima facciamo il partito delle lavoratrici e dei lavoratori, poi lottiamo per l’attuazione della Costituzione. Una formazione politica che faccia asse sul lavoro si costruisce nel fuoco delle lotte e dei movimenti. Nei territori, nelle fabbriche e negli uffici, nelle scuole, nei luoghi di e di studio, nelle periferie e nei centri urbani, portando in primo piano e coordinando le tre questioni che emergono con particolare acutezza dalle contraddizioni esplosive del capitale: lo sfruttamento del lavoro, la distruzione dell’ambiente, l’oppressione di genere.
Cominciare dunque dal basso è necessario, intanto con una diffusa campagna d’informazione che illustri la portata innovativa della nostra Carta. Ma non basta. È indispensabile agire anche dall’alto mettendo insieme le forze disponibili a lottare per l’attuazione di alcuni punti qualificanti della Costituzione, senza dannosi personalismi e distruttive personalizzazioni. In pari tempo è essenziale colmare il vuoto di una cultura critica della realtà, in grado di rimuovere il dogma su cui si è esercitata la vera forza egemonica del capitalismo moderno, ossia la negazione del conflitto di classe. La più grande falsificazione del secolo, diffusa nel momento stesso in cui con la globalizzazione si è compiuto il più esteso e massiccio dominio del capitale sul lavoro. Aver accettato questo dogma è stato il segno della resa e l’inizio della catastrofe della sinistra.
Nell’economia moderna, comunque tecnicamente configurata, permangono con tutta evidenza rapporti di dominio e di dipendenza tra chi dispone dei mezzi di produzione e di comunicazione e chi dispone esclusivamente delle proprie capacità fisiche e intellettuali. È su questa base che si compie lo sfruttamento della classe lavoratrice e in ultima analisi il destino di ogni essere umano, la sconsiderata distruzione della natura, l’oppressione sociale delle donne. Ed esattamente questo è il nodo cruciale da mettere a fuoco, dal quale non si può prescindere.
La nostra Carta del 1948 non nega il conflitto tra le classi. Al contrario, riconosce il carattere costruttivo del conflitto promosso dalla classe lavoratrice, da tutti i subalterni e gli sfruttati, per l’affermazione della libertà e dell’uguaglianza, e per estendere una democrazia progressiva. Una conquista storica, da preservare e da arricchire per costruire il futuro. E da portare anche in Europa. La Costituzione degli italiani che fonda sul lavoro la Repubblica democratica è un buon punto di riferimento per costruire un’altra Europa. L’Europa dei popoli e dei lavoratori.
Paolo Ciofi www.paolociofi.it
pubblicato anche sul giornale online jobnews.it