«La morte del Pci» di Guido Liguori, edito da Bordeaux

Bandiera pci 350 260di Lelio La Porta - Il prossimo 2021 sarà un anno ricco di commemorazioni relative alla storia del Pci. Infatti ricorreranno il centesimo anniversario della fondazione (21 gennaio 1921), il trentesimo dello scioglimento (4 febbraio 1991), il centotrentesimo della nascita di uno dei fondatori (22 gennaio 1891, Antonio Gramsci). Inoltre, osservando la successione delle date, balza all’occhio che lo scioglimento avvenne esattamente settanta anni dopo la fondazione a partire dall’annuncio di Occhetto del 12 novembre 1989 sul cambiamento del nome del Partito. Il Pci simile alla giraffa, cioè un animale strano ma reale, come diceva Togliatti, vide realizzarsi il suo scioglimento nel corso di due anni e mezzo che potremmo collocare fra il 22 giugno del 1988, data dell’elezione di Occhetto segretario da parte del Comitato Centrale, al febbraio del 1991 quando lo stesso Occhetto venne eletto segretario del Pds. Per seguire le tappe dei due anni che condussero allo scioglimento del Pci viene riproposto, dopo dieci anni dalla prima edizione, il libro di Guido Liguori La morte del Pci. Indagine su una fine annunciata (1989-1991) (Bordeaux, Roma, 2020, pp. 271, €14,00).

Mai sottotitolo fu più azzeccato. Infatti di vera e propria indagine si tratta nel corso della quale, dopo le prime cinquanta pagine dedicate ad una sintetica ricostruzione di alcune vicende essenziali della storia del Pci, l’autore, quasi come se il racconto diventasse una sorta di thriller politico, comincia a portare sulla scena i protagonisti del percorso che condurrà alla fine del Partito. Il terminus a quo dell’indagine di Liguori è Berlinguer il quale aveva “abbozzata una nuova identità comunista”, “la rifondazione di un progetto comunista adeguata all’Occidente”; dal momento che questo processo non ebbe seguito iniziò la fine del Pci che avrebbe portato “alla sua morte non inevitabile, ma annunciata”. Da qui inizia l’”impraticabile” programma di Natta (“continuare Berlinguer ma ricostruire l’unità del gruppo dirigente”), peraltro bloccato dalle dimissioni del giugno del 1988 alle quali fece seguito, nello stesso mese, l’elezione, da parte del Comitato Centrale, di Achille Occhetto come segretario del Pci.

Incipit tragoedia: Occhetto aveva preso l’abbrivio dall’annuncio del cambiamento del nome, ma senza avere idee chiare intorno a “cosa” un nuovo nome dovesse caratterizzare. In questo sconcertante ondivagismo, che ricorda molto da vicino il proverbiale “se è nato prima l’uovo oppure la gallina”, le prime mosse del segretario furono finalizzate alla creazione di un gruppo dirigente che avrebbe dovuto aprire un nuovo corso, dare vita a un “nuovo partito comunista”, determinare la svolta (gli svoltisti, così si autodefinivano); un gruppo composto da convinti della svolta, da meno convinti ma non per questo meno partecipativi, fino a quanti aderirono pensando al proprio futuro oppure aderirono dichiarando di non essere mai stati comunisti. In questa situazione emergeva la contraddizione di un gruppo dirigente non più comunista che si trovava alla testa “in un partito formato di dirigenti e militanti che, nella stragrande maggioranza, ritenevano di essere comunisti, di nome e di fatto”.

Liguori ripercorre i momenti che prepararono il congresso di Rimini del Pci (31 gennaio-4 febbraio 1991), “l’ultimo della sua storia quasi settantennale”, ricorrendo ai documenti, come è prassi per chiunque voglia definirsi storico “integrale”, ma senza nascondere, partigianamente, il suo punto di vista e la sua collocazione nella discussione. Lo scioglimento del Pci ha privato la sinistra italiana della sua colonna vertebrale (“sinistra invertebrata” fu definita da uno storico inglese), di una “comunità diversa di donne e di uomini” che, con il loro impegno quotidiano, dalla diffusione del quotidiano del Partito, l’Unità, al volontario sacrificio per la realizzazione delle Feste de l’Unità, dalle accese discussioni nelle Sezioni alla disponibilità continua durante le campagne elettorali avevano contribuito in modo decisivo alla difesa della democrazia in Italia e all’affermazione dei principi costituzionali.

C’è nostalgia nelle parole di Liguori? Forse rammarico su ciò che ancora quel Partito, con il suo nome e la sua storia, avrebbe potuto dare alla storia politica, culturale e sociale del nostro Paese. Ma ancora più evidente è la durezza con la quale l’autore descrive lo scenario di dirigenti impegnati a seppellire sotto le macerie del Muro di Berlino la storia e la tradizione di un Partito che, chiamandosi comunista, aveva denunciato l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, il massacro di Piazza Tien An Men nel giugno del 1989 e aveva dichiarato esaurita “la spinta propulsiva” proveniente dalla Rivoluzione d’Ottobre di fronte alle torsioni autoritarie di Paesi di quello che veniva definito il “socialismo reale”, o meglio, fino a quel momento realizzato.

Nel libro di Liguori c’è ancora altro che consente di penetrare nelle pieghe di una vicenda così importante per la storia d’Italia e per la sinistra italiana: la storia di un Partito, nel caso specifico la storia della fine di un Partito, diventa, gramscianamente, “la storia generale di un Paese dal punto di vista monografico”, ossia la storia dell’indebolimento dell’Italia, e della sinistra italiana, privata della solidità politica e culturale del Pci.

Il manifesto, 15 aprile 2020